Svetta ancora, di bianco vestito. Famoso per il suo capo “illuminato”, punto di riferimento di capitani coraggiosi. Da secoli sempre lì, estate e inverno, maestrale o scirocco che sia. Il suo canto libero, evocativo, si sprigionava nelle notti adriatiche, ci cullava, sincero e confortevole. Riconduceva a dimora i più temerari e stimolava, al contempo, l’estro dei più creativi. Ora, uno dei monumenti simbolo della città, il faro di Rimini, compie 250 anni. Per questo nobile compleanno, il Rotary Club Riviera ha organizzato: una visita guidata condotta dal reggente del faro Vincenzo Colaci e una conferenza serale tenuta dallo storico dell’architettura Giovanni Rimondini. Chi volesse organizzare visite per scolaresche o romantici cittadini può prendere contatti col guardiano, ma tutto senza scopo di lucro. Se da una vita vi domandate cosa vi sia conservato al suo interno, beh, semplice, cimeli della regia marina: una raccolta di vecchi componenti degli impianti di illuminazione non più in uso, foto di fari italiani, nonché il nautofono, bloccato ormai due anni or sono. Tre rampe di scale conducono ai vari livelli terrazzati, sino a giungere in cima alla lanterna condotti per una irta scala a chiocciola, e più si sale più si sente una sorta di forza ascensionale, una smania fortissima di curiosità, di sentirsi, romanticamente, un solitario tutore delle sorti della marineria locale. La lampada custodita lassù in cima si trova all’interno di potenti lenti di cristallo profilo Fresnel. Ogni faro ha la sua personalità, caratterizzata da un proprio “periodo di luce”: il nostro compie tre lampi in dodici secondi. Intorno alla lanterna c’è un piccolo terrazzo da dove si può ammirare senza soluzione di continuità il grande blu.
La storia del faro è avvolta nel mistero. Pare che i diecimila scudi stanziati da Papa Clemente XII nel 1735 per realizzarlo fossero stati utilizzati dal Cardinale Legato Giulio Alberoni per costruire due ponti sulla strada per Ravenna, denari che la comunità riminese dovette, in un modo o nell’altro, far ricomparire. Con l’insabbiamento del porto canale e l’allontanarsi sempre più del mare dalla città, la necessità di un nuovo faro si faceva impellente. Così, qualche anno dopo, l’opera fu finalmente realizzate e terminata tra 1763 e 1764. Ad oggi mancano i documenti della costruzione e secondo Rimondini questa mancanza non è affatto casuale, considerate le abilità con cui i riminesi di allora facevano sparire gli scudi provenienti da Roma. Si dibatte molto sulla paternità del progetto, il toto nomi passa da Luigi Vanvitelli a Giovan Francesco Buonamici, Gaetano Stegani, Filippo Marchionni. Il sospetto però cade sul capomastro Domenico Bazzocchi Pomposi, che aveva diretto i lavori del cantiere della torre dell’orologio di Piazza Tre Martiri.
In attesa che vengano scartabellati nuovi archivi, mettiamo in stand by le supposizioni sull’autore del progetto del faro e plachiamo la curiosità non ciò che sino ad ora è dato sapere. I progenitori di questa nostra lanterna erano collocati precedentemente in corrispondenza di due chiese cittadine situate sulla sponda del Marecchia: attorno al Trecento una lanterna fu posta sul campanile della chiesa di San Nicolò, e nel Seicento spostata sulla Chiesa di sant’Antonio. Nel 1934 la modernità bussò all’uscio, la torre venne sopraelevata di circa 9 metri e la sorgente luminosa dotata di corrente elettrica. Il nostro faro svolse nei secoli un sacco di ruoli, tra cui quello di torre-fortino, vedetta e faro di atterraggio. Abbattuto in parte durante i feroci bombardamenti sulla città, fu ricostruito nel 1946 dal genio civile. Il piede della costruzione è la parte, ad oggi, più antica. In ogni caso, salire in cima a questa storica lanterna, visibile da 15 miglia, provoca forti emozioni; dalle balconate poste a differenti livelli lo sguardo si apre a 360° sul paesaggio circostante. Ma il futuro chiama anche da quassù, motivandoci a pensare a nuovi e proficui utilizzi di questo simbolo cittadino.
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